Vita e speranza il titolo dell’intervista a Radio Maria con don Gabriele Mangiarotti, socio fondatore del Comitato “Pro-life insieme” dagli albori della sua nascita.
La nostra riflessione si pone a qualche settimana di distanza dalla pubblicazione del messaggio dei Vescovi per la 47ma giornata per la vita 2025.Messaggio della CEI per la 47ma Giornata per la Vita 2025
Iniziamo a conoscere don Gabriele, che abita a San Marino, dove è noto per le sue battaglie in difesa della vita nascente e contro la legge di aborto.
Autoritratto di un sacerdote unico
«Quando un uomo nasce gli viene consegnata una parola» [R. Guardini, Appunti per un’autobiografia, p. 20]
Quello che ha scritto Guardini è una sfida costante, e lo posso leggere come un invito a riconoscere le tappe della mia vita. Nella mia storia ci sono alcune parole che hanno segnato (e segnano ancora) il mio cammino.
Ricordo come fosse ieri quello che mi disse mio padre il primo giorno di scuola della mia prima media.
Ero tornato a casa dicendo le parolacce. Mio papà, sul divano nel tinello, mi chiese, per prima cosa, se ne conoscevo il significato. E poi – e questo lo ricordo come se fosse accaduto ieri – mi disse «Siamo cristiani, non possiamo essere come gli altri». Credo che questa parola, questo momento di grazia sia quella «parola» che ci è stata consegnata per la vita. Quasi un marchio, e l’invito a non avere paura della diversità.
Ci sono altre parole che mi hanno segnato, e che mi sono state consegnate (come a tutti i miei compagni di classe) dalla mia professoressa di lettere alle medie. A Natale ci diede una immaginetta con questa scritta: «Ad Deum qui laetificat iuventutem meam». Queste parole le ho poi risentite quando sono entrato in Seminario. Lì Mons. Oggioni mi disse: «Non so se diventerai sacerdote – beh, poi lo sono diventato – ma sappi che “ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. È bello poter pensare di dare la vita al Signore, allieta la giovinezza».
E l’altra parola della mia professoressa è stata: «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».
L’ultima parola l’ho sentita da Don Giussani, quando, a Varese al raduno di CL, raccomandando la preghiera per me che sarei diventato sacerdote, citò s. Paolo «Fidelis Deus qui vocavit vos. Ipse faciet».
La fedeltà di Dio nonostante tutti i miei limiti e tradimenti è ciò di cui sono più certo
Come non essere grati per tutto questo?
Perché credere nel domani?
Papa Francesco parla della «strage degli innocenti» e quanto ricorda ci presenta uno spettacolo, una tragedia senza limiti. Allora, che fare e che dire?
Riporto questo pensiero di Italo Calvino (che tra l’altro era – per me dolorosamente – fautore dell’aborto): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» [ITALO CALVINO, Le città invisibili]
Dare spazio a ciò che è bene, riconoscerlo e comunicarlo. Il nostro tentativo con Pro life insieme di dare voce «unitaria» a coloro che difendono la vita è un primo, piccolo, passo. In questi giorni (ieri, 13 dicembre) a San Marino abbiamo celebrato una veglia di preghiera e di adorazione per la vita nascente, in obbedienza all’auspicio di Papa Benedetto. Quello che mi ha sorpreso è stato il vedere tante mamme e papà, con altri figli, venuti a pregare per il figlio che stavano portando in grembo. Anche questo è un piccolo segno, ma segno di «speranza affidabile».
Si può fare a meno della speranza?
Le parole dei nostri Vescovi sono una domanda per tutti noi: «Quale futuro c’è per una società in cui nascono sempre meno bambini? La scelta di evitare i problemi e i sacrifici che si accompagnano alla generazione e all’educazione dei figli, come la fatica a dare sufficiente consistenza agli investimenti di risorse pubbliche per la natalità, renderanno davvero migliore la vita di oggi e di domani?
Il riconoscimento del “diritto all’aborto” è davvero indice di civiltà ed espressione di libertà? Quando una donna interrompe la gravidanza per problemi economici o sociali (le statistiche dicono che sono le lavoratrici, le single e le immigrate a fare maggior ricorso all’IVG) esprime una scelta veramente libera, o non è piuttosto costretta a una decisione drammatica da circostanze che sarebbe giusto e “civile” rimuovere?».
Due considerazioni:
Da un lato il problema gravissimo di una mentalità contro la vita, quella «cultura della morte» di cui ci ha parlato san Giovanni Paolo II. Il Card. Sarah, nell’ultimo libro pubblicato, Dio esiste?,così si esprime a proposito dell’aborto: «Oggi, affermando il diritto alla libera realizzazione di sé, si stabilisce parallelamente il diritto a sopprimere un altro essere umano, che sia stato appena concepito, che non abbia la pienezza delle abilità fisiche od intellettive, che sia nel declino della vita e venga perciò considerato un peso, un costo sociale. Si contano a milioni gli aborti annualmente operati, radicando una innaturale inimicizia tra la donna e il figlio che porta in grembo: questo non avrà conseguenze? Il dolore e la sofferenza che accompagnano la decisione della madre e la morte del bambino, potranno essere mai dimenticati, nascosti a se stessi? E quanto questo produrrà, come ulteriore sofferenza e perdita, per tutti?».
Questa inimicizia certo è uno stigma che spezza la speranza dell’uomo, della pace, del futuro.
Dall’altro nel discorso dei Vescovi si affronta la tragedia della povertà, della miseria, come causa della mancanza di accoglienza della vita.
Sono certo due aspetti della tragedia dell’aborto.
Riscoprire il valore della vita, compito di fede e cultura
Credo però, in particolare, che sia necessario porre mano a quella evangelizzazione che faccia riscoprire il valore della vita, di ogni vita, in ogni circostanza. Si tratta di un compito di fede e di battaglia culturale. Mi sono di aiuto queste parole di don Giussani: «È necessario che cominciamo a prendere sul serio la fede come “reagente” sulla vita concreta, in modo tale che siamo condotti a vedere l’identità tra la fede e l’umano reso più vero – nella fede l’umano diventa più vero, l’uomo raggiunge vera proporzione al suo destino – … Così l’atteggiamento di fronte alla vita secondo la radicalità della fede diventa rispettoso della persona e della dignità del suo destino: allora noi siamo contro l’aborto, perché se c’è già una vita umana, sebbene nascosta nel seno della madre, essa è pienamente degna di rispetto.» [Dall’utopia alla presenza]
Tutto sta in quell’«ALLORA», ed è un altro modo di dire quanto s. Giovanni Paolo II riconosceva: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Qui si apre tutto il nostro compito ed impegno.
“ I cristiani…Dio li ha posti in un luogo tanto elevato che non è loro permesso di disertarlo”
Possiamo riprendere quanto, agli inizi del cristianesimo, ricordava la «Lettera a Diogneto»: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. …
Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne…
I cristiani, sottoposti ai supplizi, aumentano di numero ogni giorno più. Dio li ha posti in un luogo tanto elevato, che non è loro permesso di disertarlo.»
È questo il momento della testimonianza (si chiama anche martirio) e quello che stupisce è che i frutti si cominciano a vedere. Quello che non si può tollerare è la confusione tra i credenti, tra i cattolici. È il momento di una difesa della vita (pensiamo alle parole durissime di Papa Francesco sull’aborto) che ha bisogno sia di una cultura adeguata sia di tentativi e di opere concrete che siano il luogo del «non inferno». Se “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” questo amore ha anche il volto delle iniziative di speranza che sostengono in ogni circostanza le mamme che attendono, i padri che sono in comune attesa del frutto del loro amore, gli educatori che si spendono perché rinasca la cultura della vita…
don Gabriele Mangiarotti
Omelia di San Giovanni Paolo II a Washington:
https://youtu.be/9xvqVqiPHiY?si=gLG1pls7IuGACQDj
link per ascoltare la trasmissione a Radio Maria:
https://radiomaria.it/puntata/tavolo-pro-life-16-12-2024/