Femministe cattoliche? Una risposta alla luce del Magistero della Chiesa

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Si può essere cattoliche e femministe?

Negli ultimi anni, la domanda “si può essere cattoliche e femministe?” è tornata con forza nel dibattito ecclesiale. L’ha rilanciata di recente la teologa americana Julie Hanlon Rubio, in un libro pubblicato dall’Università di Santa Clara. La sua tesi, in sintesi, è che si possa restare nella Chiesa come femministe “critiche”, pronte a contestare la dottrina tradizionale e ad aprirsi a nuove visioni di genere, di potere e di sessualità.

È un tema delicato, ma importante. Perché oggi molte donne cattoliche — e non solo — si sentono divise tra il desiderio di appartenenza alla Chiesa e le rivendicazioni del femminismo moderno.

Ma la domanda vera non è se si possa essere “femministe e cattoliche”, bensì che tipo di femminismo si intenda.

1. La radice del problema: due visioni dell’uomo

Il cristianesimo e il femminismo contemporaneo partono da due antropologie opposte.

Il cristianesimo si fonda sulla verità rivelata che l’uomo e la donna sono uguali in dignità ma diversi e complementari, creati “a immagine di Dio” (Gen 1,27).

La differenza sessuale non è un ostacolo, ma un dono voluto dal Creatore per manifestare la comunione e la fecondità del suo amore.

Il femminismo moderno, invece, tende a negare questa differenza o a ridurla a una costruzione culturale. È qui che nasce il conflitto. Perché, se non esiste più un “maschile” e un “femminile” voluti da Dio, allora anche la famiglia, la maternità, la paternità e persino il sacerdozio diventano ruoli da ridefinire a piacere.

San Giovanni Paolo II, nella Mulieris dignitatem (1988), lo ha espresso con chiarezza:

«Ogni autentica promozione della donna deve essere radicata nella verità sulla persona umana creata a immagine di Dio.»

2. La complementarietà, non la competizione

Il Magistero non ha mai negato la pari dignità della donna.

Anzi, ne ha proclamato con forza la grandezza. Ma ha sempre ricordato che dignità non significa identità di funzione, e che la Chiesa non è una struttura di potere, bensì una comunione di vocazioni diverse.
L’uomo e la donna si realizzano non nella competizione, ma nella complementarità.
Questo vale nella famiglia, nella società, e nella stessa Chiesa, dove il servizio di Maria Santissima — la più alta tra le creature — non passa dal potere, ma dal fiat, dall’umile accoglienza della volontà di Dio.
La più grande donna della storia non ha preteso nulla, ha solo detto “sì”.

3. Il vero nodo: autorità e obbedienza di fede

La Rubio parla di “appartenenza consapevole”, intesa come restare nella Chiesa ma contestandone alcuni insegnamenti.

Ma l’appartenenza cattolica, ricorda il Concilio Vaticano II, non si fonda su un consenso critico, bensì su un ossequio religioso della volontà e dell’intelletto al Magistero della Chiesa (Lumen gentium, 25).

Non possiamo “scegliere” quali parti della dottrina accettare e quali no, come se la fede fosse un buffet da cui prendere ciò che ci piace.

La Chiesa non è nostra: noi apparteniamo a lei, perché è il Corpo di Cristo.

E in questo Corpo, ogni membro è prezioso non quando impone la propria voce, ma quando ascolta lo Spirito che parla attraverso i Pastori.

4. Il punto più grave: morale sessuale e ideologia di genere

Nell’articolo, la professoressa Rubio afferma che la tradizione cattolica dovrebbe “aprirsi” alle nuove conoscenze sull’orientamento sessuale e sulla fecondità delle relazioni omosessuali.

Ma il Magistero ha parlato in modo definitivo su questo punto:

«Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e non possono essere approvati in nessun caso» (Catechismo, n. 2357).

«Non esiste alcuna analogia, neppure remota, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia» (Congregazione per la Dottrina della Fede, 2003).

Accogliere ogni persona con carità non significa relativizzare la verità.

Quando la teologia si piega all’ideologia del mondo, smette di essere luce e diventa ombra.

5. Il sacerdozio femminile: una questione chiusa

Un altro tema caro alla teologia femminista è l’ordinazione delle donne.
Ma Giovanni Paolo II, nella Ordinatio sacerdotalis (1994), ha chiuso la questione in modo definitivo:

«La Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale, e questa sentenza dev’essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli.»

Non è una discriminazione, ma fedeltà alla volontà di Cristo, che ha scelto uomini come apostoli, e donne come prime testimoni della Risurrezione.

In Maria e nelle sante, la Chiesa riconosce che la santità vale più di ogni potere.

6. Il vero “femminismo cristiano”

Esiste, però, un autentico “femminismo cristiano”: non quello che vuole cambiare la Chiesa, ma quello che si lascia cambiare da Cristo.

È il femminismo del Vangelo, che esalta la donna come madre, sposa, discepola, testimone, e la chiama a una missione insostituibile di tenerezza, custodia e sacrificio.

Santa Edith Stein scriveva che la donna è chiamata a custodire la persona, a rendere la vita più umana, più accogliente, più vera.

E san Giovanni Paolo II, nella Lettera alle Donne (1995), diceva:
«Il vero progresso della donna non può prescindere dalla maternità, ma deve coniugarsi con essa.»

7. Conclusione: Maria, la vera rivoluzione

Si può essere cattoliche e femministe?

Sì, se per femminismo intendiamo il desiderio evangelico di restituire alla donna la sua vera dignità, non di stravolgere la verità su Dio e sull’uomo.

Ma se il femminismo diventa contestazione del Magistero, relativismo morale o negazione della differenza sessuale, allora non è più compatibile con la fede cattolica.
Il cristianesimo non ha bisogno di ideologie per valorizzare la donna.
Ha bisogno di sante.

E la più grande “rivoluzionaria” della storia è una giovane donna di Nazaret che, senza scrivere manifesti né fondare movimenti, ha cambiato il mondo con una sola parola:

“Fiat”.

La Redazione del Comitato “ Prolife insieme”