In merito alla sentenza che esclude la premeditazione nell’omicidio di Giulia e del bimbo Thiago, il Comitato Pro-life insieme esprime la propria posizione.
La corte d’ Assise d”appello di Milano ha riconosciuto che Impagnatiello, accusato di aver ucciso la compagna incinta di sette mesi e il loro bambino, non avesse l’intenzione inizialmente di colpire la donna a cui aveva somministrato del veleno, lo scopo di questa azione sciagurata sarebbe stato quello di procurare un aborto spontaneo alla vittima e quindi di liberarlo da questa responsabilità che gli avrebbe impedito di avere un’altra relazione.
Non è possibile però definire aborto spontaneo quello che sarebbe potuto accadere se il veleno avesse colpito ed ucciso solo il bambino.
Sarebbe stato un parto. La legislazione italiana definisce “nato morto” un feto che nasce senza segni di vita dopo le 25 + 5 settimane di gestazione, tempo questo ormai superato da Giulia che era già al settimo mese, quindi circa alla trentesima settimana di gravidanza
Quindi secondo i giudici, il fatto che l’imputato avesse usato il veleno non per uccidere la compagna ma per uccidere il bambino assumerebbe valenza diversa.
Il piccolo Thiago, così si sarebbe chiamato il bambino eliminato assieme alla sua mamma da chi invece avrebbe dovuto garantirgli cure, protezione ed affetto, viene considerato un aborto. Un bambino al settimo mese di gestazione non è completo e non è del tutto pronto per nascere ma ha già sviluppato la maggior parte degli organi e può sopravvivere con un’assistenza medica specifica fuori dall’utero. I polmoni, gli ultimi organi ad essere formati continuano a maturare ,e la loro funzionalità completa si raggiungerà nelle ultime settimane di gravidanza.
Non c’è alcun dubbio che qui ad essere ammazzate sono state due persone e questo dichiarare da parte dei giudici che “non ci fosse l’intenzione di uccidere la donna ma di procurarne l’aborto spontaneo” fa passare il messaggio che procurare un aborto non sia così grave come ammazzare.
L’uccisione della giovane donna incinta colpisce per la sua crudeltà, perché insieme a lei è morto anche il bambino che portava dentro di sé e questo costituisce aggravante della pena. Varie leggi sono state emanate ( la n. 38 del 2009, la n. 119 del 2013, la n. 69 del 2019) con l’obiettivo di tutelare le vittime di violenza domestica e come aggravante della pena vi è il caso in cui sia coinvolta una donna in stato di gravidanza.
Nel caso quindi di una donna incinta, anche il nascituro ha diritto ad una sua specifica protezione e la sua soppressione non consenziente ne configura un ulteriore reato.
Si parla infatti di interruzione di gravidanza non consensuale. Il codice penale, all’articolo 575 indica come vittima “la persona” lesa ed in questo caso naturalmente oltre alla donna c’è anche il feto. Qualora la soppressione del prodotto del concepimento si verifichi dopo il distacco, naturale o indotto del feto dall’utero materno, ciò si configura come delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577, n, 1 codice penale. Viene dunque, preso atto degli articoli, riconosciuto dal legislatore anche il feto come “persona” vera e propria.
La sentenza della Cassazione penale sez. 1 n. 46945 del 2024 utilizza la frase “la morte è l’opposto della vita” per giustificare il riconoscimento della figura umana anche al feto. Sottolinea altresì che la vita va protetta sin dalle prime fasi di sviluppo e che la morte ne determina la sua cessazione.
In definitiva, l’accusa di Impagnatiello, deve prevedere e punire l’omicidio volontario con le aggravanti del caso nonché l’interruzione non consensuale di gravidanza.
I titoli che si leggono in questi giorni nei vari giornali in cui si tenta di “sgravare” l’imputato dicendo che in realtà non voleva uccidere la vittima ma solo procurarne l’aborto sono, oltre che crudeli per il messaggio che veicolano, non recepiti dalla legislazione italiana che riconosce il feto portatore di diritti.
Angela D’Alessandro
Prolife insieme